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Cloud Repatriation: Perché non è un passo indietro (ma un’evoluzione strategica)

18/11/2025
Cloud Repatriation: Perché non è un passo indietro (ma un’evoluzione strategica)
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Il “Cloud Reset”: perché le aziende ripensano il Cloud-First

Negli ultimi dieci anni il cloud è stato celebrato come la chiave di agilità e innovazione per le imprese. Molte organizzazioni hanno adottato una strategia “cloud-first”, spostando rapidamente applicazioni e dati sulle grandi piattaforme pubbliche globali. Tuttavia, col tempo è emerso che quest'approccio, così com'era, non era sufficiente a garantire efficienza, controllo e sostenibilità. Costi non sempre prevedibili, difficoltà nel garantire la compliance normativa e rischi di lock-in tecnologico hanno spinto molte aziende a rivedere criticamente le proprie scelte. È nato così il concetto di cloud reset: una fase di riflessione matura che segna il superamento dell’adozione cloud indiscriminata, a favore di un modello più bilanciato e strategico, dove il cloud viene integrato secondo logiche di ottimizzazione, governance e aderenza alle reali esigenze di business.

Le ragioni di questo ripensamento sono molteplici:
  • Costi imprevedibili: i vantaggi di costo promessi dal cloud spesso si sono tradotti in bollette mensili fuori controllo e sprechi. Secondo Gartner, in media oltre un terzo della spesa cloud viene sprecato in inefficienze (con punte fino al 55% in assenza di ottimizzazioni), ad esempio per costi di uscita (egress fee) o risorse inattive pagate inutilmente. (Abbiamo approfondito il tema dei costi nel nostro articolo dedicato ai costi dell’infrastruttura cloud).
  • Performance variabili: applicazioni mission-critical a bassa latenza possono soffrire in ambienti condivisi, con downtime non azzerabili e il fenomeno dei “noisy neighbors” (vicini di cloud rumorosi) che degradano le prestazioni.
  • Compliance e sovranità dei dati: regolamenti sempre più stringenti (es. GDPR, NIS2) rendono più urgente garantire piena conformità quando i dati risiedono in cloud pubblici globali, specie in assenza di controllo sulla localizzazione geografica. Ma sicurezza non è solo protezione tecnica: è anche governance e sovranità. La repatriation di workload sensibili in ambienti privati o sovrani consente di mantenere i dati sotto giurisdizione UE, semplificare audit, ridurre rischi legati alla compliance e rafforzare la fiducia degli stakeholder, trasformando la sovranità da vincolo normativo a leva strategica di resilienza e controllo.
  • Lock-in del fornitore: infine, la dipendenza da un singolo vendor cloud e la difficoltà (o gli alti costi) di spostare workload altrove hanno generato in molti CIO nuova consapevolezza rispetto ai limiti di questa scelta. Queste sfide hanno messo in luce i limiti di un approccio “cloud-only a tutti i costi”.
Il risultato è che il pendolo sta tornando verso un modello più bilanciato. Importanti decision maker parlano di cloud repatriation come di una correzione strutturale e non di una moda passeggera, per ritrovare il giusto equilibrio tra agilità e controllo. In altre parole, non si tratta di rinnegare il cloud, ma di integrarlo in modo più oculato all’interno di una strategia IT matura ed equilibrata.

Cos’è la Cloud Repatriation (e cosa non è)

La cloud repatriation indica il processo di riportare in-house o su cloud privato determinati dati, applicazioni e workload che in precedenza erano stati migrati su cloud pubblici. In pratica significa rilocalizzare alcune risorse IT: spostarle dal cloud pubblico verso infrastrutture private, data center on-premises o cloud locali più vicini al controllo dell’azienda. Questo trend è una risposta strategica di organizzazioni che stanno rivedendo la propria cloud strategy dopo anni di adozione pubblica indiscriminata, chiedendosi davvero cosa sia la cloud repatriation e quale valore possa apportare.

Sfatare un mito: non è un ritorno al passato

Spesso si pensa erroneamente che la repatriation sia un “ritorno al passato”, quasi una sconfitta del cloud. In realtà non si tratta di nostalgia, ma di un’esigenza strategica, volta a riprendere la governance della propria infrastruttura su aspetti cruciali come sicurezza, compliance e costi. In altre parole, le aziende non stanno abbandonando l’innovazione del cloud per tornare alle tecnologie legacy; stanno piuttosto ribilanciando il mix di infrastrutture per ottenere maggiore governance. Ad esempio, alcuni workload vengono riportati on-premises per garantire la sovranità del dato e la conformità normativa (tema approfondito anche nel nostro articolo sulla sovranità digitale e compliance nel cloud). Altri workload si spostano su cloud privati per ridurre i costi operativi e aumentare la prevedibilità della spesa, senza rinunciare ai vantaggi di virtualizzazione e automazione propri del cloud. L’importante è capire che “repatriare” non equivale a fare marcia indietro tecnologica, bensì a proseguire in avanti con una strategia più intelligente.

È una questione di equilibrio: Il “cloud giusto” per ogni workload

La cloud repatriation incarna un principio di scelta del “cloud giusto” per ogni workload, invece dell’approccio one-size-fits-all del passato. Significa adottare un modello ibrido e multicloud in cui si combinano ambienti diversi (on-prem, private cloud, public cloud) in base alle esigenze specifiche. Non tutte le applicazioni sono fatte per il cloud pubblico, né ogni dato dovrebbe risiedere on-prem: la chiave è collocarli dove ha più senso in termini di costo, performance e conformità.

Questa filosofia sta guidando un cambiamento di mentalità: oggi la maggior parte delle imprese bilancia intenzionalmente cloud pubblici e privati. Secondo il report Private Cloud Outlook 2025 di Broadcom, il 93% delle aziende adotta consapevolmente un mix di cloud pubblico e privato nelle proprie infrastrutture. Allo stesso modo, studi globali (come il Flexera State of the Cloud) mostrano che circa l’80% delle organizzazioni ha già una strategia cloud ibrida operativa. Questo perché l’ibrido offre la flessibilità di sfruttare il meglio di entrambi i mondi: mantenere on-premises ciò che richiede controllo o basse latenze, e usare il cloud pubblico dove serve elasticità e servizi avanzati. In Italia, non a caso, il modello ibrido prevale già da qualche tempo. La cloud repatriation quindi è la naturale evoluzione verso un uso più consapevole e ottimizzato del cloud all’interno di architetture miste.

I numeri del trend: un fenomeno globale e italiano

Non siamo di fronte a casi isolati, ma a un fenomeno ormai rilevante nei dati di settore sia a livello globale che nazionale. Secondo IDC, circa l’80% delle organizzazioni prevede di riportare in casa almeno una parte dei propri workload cloud nel breve termine. 

Anche in Italia vediamo segnali concreti di cloud repatriation. La School of Management del Politecnico di Milano rileva che la volontà di valutare iniziative di rientro dal cloud pubblico riguarda ormai il 35% delle grandi organizzazioni italiane, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Non si tratta quindi di teoria, ma di scelte strategiche in atto per ritrovare un equilibrio tra il cloud globale e infrastrutture controllate localmente. Questi numeri evidenziano come l’era del “tutto sul cloud” stia lasciando spazio a un approccio più ponderato – il cloud giusto al posto giusto – con benefici tangibili in termini di costo, performance e governance.

Verso il modello ibrido: la vera evoluzione della strategia cloud

Come osserva David Linthicum in un articolo di InfoWorld del 2025 intitolato "The private cloud comeback", l’architettura ibrida è ormai lo standard di fatto per l’IT – non più uno stato transitorio verso un cloud totale, ma spesso lo stato preferito e permanente. Le imprese stanno riconoscendo che il cloud ibrido offre la flessibilità di cui hanno bisogno: permette di sfruttare il cloud pubblico dove questo eccelle (scalabilità, flessibilità e accessibilità) e allo stesso tempo di mantenere on-premises o su cloud privati dedicati quei sistemi che richiedono massima affidabilità, sicurezza e controllo. Questo equilibrio consente di ottimizzare i costi e massimizzare il valore di ogni workload, come indicano anche i provider: ad esempio, il 90% delle aziende valuta positivamente la prevedibilità dei costi sul cloud privato rispetto al pubblico, e il 92% si fida del private cloud per gli aspetti di sicurezza e compliance. Sono indicatori che spiegano perché tante organizzazioni, dopo l’entusiasmo iniziale, stiano ora convergendo su strategie ibride.
In questo scenario, parlare di cloud repatriation significa in realtà parlare di maturità dell’ecosistema cloud. Non è un punto d’arrivo statico, ma parte di un ciclo di ottimizzazione continua. La vera trasformazione digitale passa dunque per un modello ibrido integrato, dove cloud pubblici, cloud privati e infrastrutture on-prem coesistono come componenti complementari di un’unica strategia. In questo modo l’IT può fornire velocità e innovazione (grazie al cloud pubblico) senza rinunciare a controllo, prevedibilità e compliance (grazie alle risorse private).

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